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Canto alla croce
Aveva piantato la tenda in un giardino incustodito, ciò che restava di selvatico attorno ai ruderi dell’antico cimitero di quella provincia sconosciuta, nascosta ai più, perché non figurava nemmeno sulle guide turistiche internazionali.
Essa sorgeva troppo appresso a città conosciute e osannate da tutti come vere e proprie perle di ricchezza e cultura. Cercava un crocefisso antico, unico nel suo genere, una specie di Cristo quasi sorridente e addormentato, per ridisegnarlo a modo suo, come già aveva fatto con i suoi fumetti preferiti e con i quadri famosi che gli avevano sconvolto la vita.
Emozioni violente, confusione tra cielo e terra, un’oasi speciale s’apriva davanti a lui e lo catturava completamente.
Bravo lo era sul serio, Manolo, in grado di fare e disfare creazioni veloci, eleganti, dal tratto sicuro, segnato già virtualmente da qualche parte entro sé. Come un dono consegnato nelle sue mani dai padri spagnoli senza fatica, né particolari sacrifici, una vera fortuna per lui.
Aveva iniziato molto giovane e già in tanti lo avevano notato, ma non piaceva a tutti, anzi. Qualcuno lo detestava apertamente, ritenendolo poco rispettoso nei suoi maneggiamenti particolari dei capolavori del passato.
Lo poteva fare coi fumetti o con le sue bizzarre elucubrazioni, ma non era ammissibile veder deformare opere classiche, considerate la perfezione stessa.
Per la sua bravura egli aveva facili commissioni, ma poi c’erano quelli che s’indignavano a morte del suo lavoro e non volevano pagarlo.
Non gl’importava granché, poiché erano quelli i giorni in cui egli inseguiva i suoi capolavori sulle tracce di avi amati come belle donne.
In quel posto così spoglio, tra gente un po’ squallida, sconnessa dalle proprie origini, Manolo cercava la purezza di un tratto potente.
Rimase per alcuni giorni a ciondolare tra il giardino e il cimitero, senza allontanarsi che di pochi passi dalla tenda, come in attesa.
Non pioveva da settimane e la vegetazione sembrava implorare assieme a lui un dono celeste, un segnale dall’azzurro terso e totale che s’indorava solo di sera tra intensi odori di bruciato.
Infine si decise ad entrare nella decrepita chiesina del cimitero che aveva un buco proprio sotto al campanile ed una parete crollata quasi per intero.
Non si capiva come i restanti muri avessero resistito, incancreniti nella loro sfida al tempo.
Il crocefisso aspettava Manolo là in fondo, in un buio rischiarato da dietro, da un unico raggio rossastro nell’ora più calda del giorno, quando le cicale cercavano alla loro maniera di confondere la natura delle cose. Egli voleva rimanere a lungo da solo a sentire quel chiasso fisso con il silenzio dei morti attorno, lui, così volitivo, incontenibile e corporale.
E voleva più d’ogni altra cosa catturare il sonno spensierato del Cristo, così sicuro di risvegliarsi presto verso la fresca alba pasquale, da sembrare che stesse facendo un pisolino sotto gli effetti del variabile clima primaverile.
Al suo fianco altre timide figurine dormivano tranquillamente. Non aveva sofferto, il suo corpo era magnificamente giovane, intatto, dunque non era mai stato ucciso. Un corpo senza ferite sanguinanti, come qualche guerriero dei fumetti, le cui ferite si rimarginano in tutta fretta, così da celare con pudore i punti deboli nella foga del combattimento.
Le cicale iniziarono la loro colonna sonora ad un’ora così precisa da far pensare ad un grande orologio a pendolo, nascosto da qualcuno tra le foglie dei platani.
Manolo adorava il caldo, perché assopiva anima e corpo in un’unica estatica totalità, proprio come alla nascita e alla morte, come in amore all’apice del sentimento.
Manolo entrò cauto in chiesa, avvicinandosi piano piano al Cristo silente. L’immaginazione galoppava selvaggia per la troppa calura e sussultava alla vista di un ramo d’albero che sbatteva controsole ad un’alta finestra.
La campana più piccola suonò mossa dal vento. Quella grande forse non aveva mai suonato da quando era stata messa lassù.
Il pittore si mise comodo davanti alla croce e cominciò a dipingere una sposa che s’agghindava maliziosa, lenta, come dovesse aggiustare qualcosa di non puramente fisico.
Immaginava un’ombra che passava sulle lenti dei suoi occhiali rotondi da vista. Un insetto, una foglia, chissà.
Il Cristo era sempre più assente, come uno spettatore che non vuole essere tale. Non era più quello del giorno prima, era muto al cuore dell’artista, sfigurato dalla presenza umana.
Immaginò una statua di donna che prese a camminare con lui di notte. Poi una nuvola che come panna montata si posò sulla sua graziosa testolina.
Il paesaggio oscurò ogni sentimento religioso, lasciando sullo sfondo il cimitero e in primo piano il giardino selvatico. Manolo comprese che era questo il regalo del maestro del crocefisso.


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