Romanesque

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Skill
Quando arriva la prima scossa violenta nessuno è preparato a farvi fronte, non è di sicuro in orario con ciò che siamo abituati ad affrontare nelle giornate normali, quelle che iniziano con una fuga, proseguono di corsa e scappano sul finale. Scivolano via.
Per non perdersi lo spettacolo straordinario d’ogni cosa che salta per aria senza limiti, in una catena d’eventi incredibili, occorre mantenersi lucidi, abbastanza al freddo, così da afferrare un nesso o due. Che cosa scriverà ora quel bambino seduto in mezzo ai campi, alla periferia nord della città? Un euro, 1999 lire per dare una sbirciatina.
Si fanno tre zeri, semplicemente tre colpettini sulla cifra più importante del mondo per entrare in contatto con la Confraternita del Soccorso, il posto dove lavoro io in compagnia d’una folta schiera di commilitoni d’ogni nazione, perché la confraternita ha sede ovunque, e questa è la sede di casa mia.
Gli altri sono qui ad aiutare. Tutti mi chiamano Skill e mi sono affezionato anch’io a questo nome che non è il mio. Ma quello vero chi lo conosce è bravo. Skill è il nome ora e non ne ho avuti altri.
Sono nato non molto tempo fa, non distante da qui, abbandonato da una signora non convinta che la maternità facesse veramente al caso suo. Skill, genietto dall’indice veloce, colui che batte lievemente a 200 all’ora sui tasti del computer con un dito solo e con gli altri fa finta. Pianista sconosciuto che finge d’accompagnare un grande concerto.
A volte mi scordo di mangiare. Qualche anima pia mi paga per il mio lavoro, ma solo di tanto in tanto, quando si ricorda e in maniera approssimativa rispetto al numero d’ore che faccio di giorno e di notte ininterrottamente.
Sto in un paese che detesta cordialmente i computer e la rete, tanto quanto ama le chiacchiere forbite.
Quando prendo la busta paga io festeggio con i pesci del mio acquario e do la birra anche al gatto che inizia a sbandare, correndo in qua e in là per la casa dietro ai suoi bambocci preferiti: un’anatra spaziale e un guerriero dal cappuccio nero.
Non è per fare il pettegolo, ma prima pagano lo stipendio ai miei commilitoni, perché fanno la voce grossa, stanno sempre a minacciare di paralizzare il sistema informatico della confraternita, se non li pagano puntualmente.
E’ uno scioperare continuo fino al qui pro quo.
Io sto zitto per i fatti miei. Questo comporta che mi ritrovo poco apprezzato nei miei molteplici talenti. Quantomeno un talento lo possiedo di sicuro, essendo supersonico sia a creare che a distruggere.
La mia vita si svolge tutta attorno alla confraternita. Mi accascio alla meno peggio lì, vicino alla luce del mio computer, fino a che uno dei miei colleghi non mi ritira su, battendo forte la mano sulle mie spalle.
Allora sussulto e mi riaccendo, pardon, ricomincio non so mai se un nuovo giorno o metà di quello precedente.
Nella mia stanza c’è un vecchio colonnello col fiatone, operato a cuore aperto, addetto alla registrazione del lavoro degli altri, grande spedizioniere di auguri natalizi e bollini per l’assegnazione di alloggi economici e buoni pasto.
C’è un siriano che è una specie di enciclopedia e sa tutto quello che c’è da sapere su tutti, un etiope che si occupa non so bene di quali pubbliche relazioni internazionali e poi giù, giù, scendendo verso il basso, una serie infinita di sfigati con gli occhi a spillo e il culo in fondo ai pantaloni. Uno di loro pagato leggermente di più fa il capo, ma non gli dà retta nessuno.
Sopra di noi ci sono i veri comandanti in capo della confraternita in un bel palazzo appena restaurato, una chiesa sconsacrata dei tempi in cui le religioni contavano ancora.
Chiunque desideri visitare i piani alti deve munirsi di uno speciale permesso, vestirsi in giacca e cravatta se è un uomo o con una curiosa redingote bianca e rossa se è una signora.
In genere ai piani alti ci vanno solamente a protestare per i magri stipendi, sperando in qualche aumento da qui all’eternità.
Vanno dal presidente i suoi baldi aiutanti, compresi gli autisti, i cuochi, il personale delle pulizie e della sicurezza personale.
Si lamentano forte. Io mi scordo anche di questo, sempre dietro al mio tavolo di lavoro.
I capi a volte mettono il naso per un secondo dentro alla mia tana e ridono sarcastici non so bene di cosa. Ma io non mi offendo e continuo con passione, imperturbabile a battere sulla tastiera.
Fuori dalla sede della Confraternita ci sono hotel per sceicchi, bar per le loro donne in burka che succhiano di tutto con una speciale cannuccia da sotto le pesanti vesti.
C’è un’ambasciata circondata dall’esercito, un fontanone per fare il bagno indisturbati, una scalinata enorme da dove è facile cadere coi tacchi alti. Allora tutti ci passano prudentemente per non fare figuracce, sia per l’altitudine, sia per il rischio di restare sotto ad un’altitudine, tipo focaccia.
Belle donne sfilano, sfidando la forza di gravità, le storte ai piedoni per essere fotografate, piagate dentro e fuori, ma sorridenti al mondo intero.
Questo posto non avrebbe bisogno d’assistenza, godendo della fama suprema di luogo della bella vita, ma chi muore di fame senza un soldo per respirare, viene ogni giorno da noi in fila indiana, mogio mogio per la vergogna dei ricconi arabi, indigeni, internazionali. Ed è sempre peggio, con file incredibili di morti di fame che prendono tutta la salita della dolce vita sotto alle finestre d’oro e preziosi.
Un declino evidente, inarrestabile. Qualcuno ha scritto sui muri dell’ambasciata blindata "aggredire il declino". Non so spiegare cosa voglia dire, se non picchiare chi è diverso da sé, ritenendolo responsabile della propria miseria. Già, poiché la gente cosiddetta mansueta agisce così, per timore e reverenza dei potenti. Non osa pensare che siano loro e solo loro la causa d’ogni miseria. Ne hanno sempre paura.
A volte io scendo fino alla statua di un fauno dell’antichità e lo guardo invidioso del suo sarcasmo, di tutta quella vitalità che nessuno ha ormai più in questo posto maledetto, dove s’arriva a cercar fortuna e si trova la miseria più devastante.
C’è invidia per chi lavora dentro alla confraternita, perché un pasto caldo non lo fanno mancare a nessuno dei dipendenti e a coloro che riescono ad entrare lì dentro.
Sul più bello dei miei tanti pensieri arriva sempre il signor presidente, bisogna stare zitti, ossequiare.
Costui proviene da un paese straniero, s’è insediato da poco, non si trova ancora bene qui, perché prima era un dirigente rigido, autoritario, una specie di dittatore.
E’ stato eletto da una democrazia raffazzonata, camuffata alla meglio, abituata a parlare di religione ed umanesimo, ma sfaticata, mangiatrice a ufo, intristita da loschi affaristi che invadono ogni luogo.
Il presidente ha un nottolino nero che indossa una volta all’anno alla festa più grande della confraternita, quella dove si rastrella in giro il bottino più grosso.
Forse i miei mancati stipendi vanno ad aiutare qualche disastrato nel mondo.
Lo scopo della nostra organizzazione sarebbe quello di soccorrere i bisognosi ovunque essi si trovino, senza averne vantaggi particolari, ma per il purissimo piacere d’aiutare il prossimo.
Io non so chi fondò questa sede e nemmeno m’interessa se in origine ci fosse un ingenuo o uno stronzo. Oramai non mi faccio più illusioni sull’essere umano e mi do da fare, nonostante io non creda che alla fame del mio gatto.
Prendo un treno che passa ogni giorno in zone dove violentare i bambini è un’abitudine consolidata e santificata da parte di chi ne ha facoltà ed ha appeso il ritratto di un bimbo nudo alla parete della sala d’attesa.
Ogni pezzo del marchingegno è stato rigorosamente selezionato per fare male, per impedire ad altri di fare bene o di fare qualsiasi cosa.
Qualcuno mi ha raccontato verosimilmente che il presidente era un cacciatore di drogati e prostitute, nel senso che li eliminava a poco a poco, rinchiudendoli in una casa di cura e lasciandoli lì senza viveri come i bersagli di un tiro a segno.
Quando non ne posso più di strizzare gli occhi al computer per mandare in onda ogni sorta di disgrazia umana con relativi interventi umanitari, io faccio lunghe passeggiate attorno alla statua di un omino barbuto a cavallo.
Sotto c’è scritto che noi siamo i suoi figlioli e da lui abbiamo l’origine, l’unità e la libertà.
La statua ha lo sguardo fisso e non è molto convincente, ma così vanno le storie e quella del mio paese sembra essere questa da quando sono venuto al mondo.
Le strade intorno alla statua sono dedicate ad un certo omino occhialuto, imbalsamato con la cinepresa a riprendere un hotel a quattro stelle, le bestie feroci del circo equestre, le bestie umane travestite da clown.
Vicino al presidio, il lusso dei giorni con l’aperitivo a bocca aperta, le cenette al lume di candela con le belle di notte, è oramai imbrattato dalla puzza di escrementi degli ubriachi da quattro lire.
E’ un tappeto di pisciate non stop, un tanfo tremendo a pochi metri dalle zone dorate dello shopping ad oltranza di mutande e gioielli per maggiorate seminude dentro al fontanone.
Il mestiere fa invecchiare alla svelta le dive del cinema, le sbatacchia, se le fuma a poco a poco.
Ben presto i loro servetti in bolletta chiameranno la confraternita con le dita tremolanti, zero, zero, zero, aiutate la mia padrona caduta in disgrazia.
Suonerà la sirena e i miei colleghi entreranno in uno di quei palazzi di lusso, pignorati nel tempo dalle banche e da frotte di loschi creditori.
I soccorritori saranno armati di barella e siringhe d’ogni formato, compresa una dimessa camicia di stoffa rigida come le tende da campeggio.
E una stella del passato finirà nelle stalle del presente, trattata con il riguardo dovuto al caso. Il suo ritratto sui muri della clinica, come fosse inciso per sempre tra i grandi personaggi.
L’ufficio dove lavoro è una specie di deposito di computer nuovi di zecca e vecchiotti da rottamare, quelli a cui il sottoscritto è di solito più affezionato, tanto da portarne pezzi interi a casa per ricordo.
A volte li faccio rifunzionare, li curo come fossero bambini da cambio del pannolino.
E quelli mi ripartono miracolosamente all’improvviso al buio, mentre dormo saporitamente nelle mezz’ore migliori.
Ho così tanti computer da poterli rivendere, ma quelli vecchi come per gli esseri umani, anche se buoni a qualcosa, non li vuole più nessuno per principio.
C’è il mio amico dagli occhiali fucsia che bestemmia in continuazione dietro ad un computer nuovo di zecca che non ne vuole sapere mai di collegarsi con le disgrazie che succedono in giro, cose dell’altro mondo, soccorso immediato, fuga organizzata.
Mentre i miei computer vecchiotti mi guidano spediti nel cuore d’ogni catastrofe, mi dicono continuamente la situazione d’ogni nazione di questo pianeta sotto shock.
La confraternita s’occupa direttamente di ciò. Prende soldi e poi soccorre quando può e quando vuole, chi vuole e chi può.
Per il resto, aiutati che dio t’aiuta, come si suol dire.
Nelle vecchie foto dell’archivio segreto ci sono scene che oggi non si vedono più: bimbi salvati in mezzo alle intemperie, strappati alla fame, alla sete, alle malattie della povertà. Ora ci arrivano foto di bambini sacrificali, imbottiti di camicie esplosive e non possiamo farci niente o soccorrere coloro che sono colpiti dai bambini assassini.
I piccoli che muoiono di povertà ci sono anche ora, ma se saltano per aria sono semplicemente bocche in meno da sfamare.
Così è, ma chi muore di miseria scopa di più, così ha più possibilità di campare. Ed è anche così.
Dal mio avamposto, in questa associazione rispettata e osannata come uno dei pilastri buoni dell’umanità, io ne vedo di tutti i colori, ma si sa che l’umano racchiude in sé gli opposti e ciò che è buono facilmente si può trasformare in male, solo spostando qualche tasto, battendo la testa contro qualcosa di duro, e poi ritornare tranquillamente indietro al bene come intatto.
Io cerco di far sapere semplicemente cosa accade, mi concentro sulle informazioni, lasciando ai dirigenti la scelta degli aiuti, le rappresentanze.
Mi sentirei in colpa a scegliere di fronte alle tragedie dei miei simili, soprattutto nei giorni in cui mi sento bene. Io informo e basta, incrocio le dita e cerco di pensarci il meno possibile.

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